Laurie Strange (LS): Siamo con Emanuele Sciannamea della compagnia Zerogrammi di Torino, una compagnia che da tanti anni lavora in Italia e non solo, e che qui a Trieste in questi giorni è ospite del Dance Project Festival, XIII edizione, per presentare l’ultima produzione, che è Fuorigioco. A Emanuele, che in questo progetto c’entra molto, chiediamo qual è stata la storia di Fuorigioco, come è nato questo progetto.
Emanuele Sciannamea (ES): Fuorigioco nasce sostanzialmente dalla volontà di parlare della capacità, della nostra società italiana, di cooperare e fare qualcosa insieme, quindi sostanzialmente parliamo degli esseri umani in una dinamica di gruppo. Per indagare e capire bene come funzionano le dinamiche di gruppo ovviamente ci sono diversi esempi e io mi sono basato sui gruppi sportivi perché credo che i valori che regolano la nostra società entrino in qualche modo a regolare anche questi piccoli gruppi, che possono essere anche di lavoro, ricreativi. Quello sportivo, in particolar modo, mi è risultato molto coeso e molto efficace, nel senso che ognuno ha il proprio ruolo, ognuno sa cosa deve fare, e tutti insieme hanno un obiettivo. Ecco questa è la cosa che è mi è saltata all’occhio. E poi mi sono chiesto come faccio adesso a traslare in uno spettacolo dal vivo queste dinamiche che si scatenano all’interno di un gruppo sportivo. E allora ne è venuto fuori che ho messo in scena cinque personaggi che provano per quasi tutto lo spettacolo a fare qualcosa insieme ma non ce la fanno per mille motivi, perché ognuno ha i suo problemi e quindi trascina gli altri affinché non si riesca a raggiungere lo step successivo. E quindi incappano in una serie di difficoltà che poi diventano delle gag, che sono divertenti anche per il pubblico, per cui è un’opera anche leggera.
Ma alla fine, quando poi proprio toccano il fondo e – lasciatemelo dire – si mandano letteralmente a cagare, risalgono la china, come un po’ fa anche la nostra società italiana, perché noi dobbiamo toccare sempre un po’ il fondo però poi troviamo un modo, il nostro famoso colpo di reni che ci ritira su, in maniera anche innovativa e fantasiosa, così come siamo fatti noi. Quindi poi, di base, il messaggio che rimane al pubblico è un messaggio positivo. Facciamo tanta fatica, facciamo veramente fatica a capire che le cose insieme potrebbero funzionare molto meglio, però alla fine ci arrabattiamo e andiamo avanti. Sostanzialmente credo che sia il problema più grande della nostra società al momento, perché la sento come costretta ad agire per emergenza, una società costretta a mettere le toppe per andare avanti e quindi si priva della possibilità di alzare lo sguardo e puntare lontano e quindi poter immaginare dei progetti un po’ più ambiziosi dove magari i risultati li vediamo tra trent’anni, però si parte tutti insieme con questa consapevolezza qui.
LS: Immagino che per prendere spunti per questo spettacolo tu abbia conosciuto anche da vicino realtà sportive, no? Penso dalle più amatoriali alle più organizzate e agonistiche.
C’è qualche aneddoto o curiosità di cui vuoi renderci partecipi?
ES: Assolutamente! Io sono stato accolto da tre realtà sportive – anzi quattro: la prima è una società di calcio giovanile del Torino, quindi comunque professionisti; la squadra di pallavolo di Seriate, Novara, che sta vincendo praticamente tutto; una squadra di serie A di rugby di un’università torinese; una squadra paralimpica di ragazzini che giocano in carrozzina.
Ovviamente sono esperienze completamente differenti. Quello che è saltato all’occhio è che la realtà più ostica è lì dove ci sono più interessi economici, ovviamente, quindi il calcio.
Il calcio è l’ambiente più spietato, stando anche agli aneddoti che mi hanno raccontato i testimoni che ho intervistato. È la realtà più competitiva, quindi viene meno – paradossalmente – il gioco di squadra, perché nel calcio c’è il funambolo, il Maradona, che può anche andare in porta da solo, mentre una squadra come quella della pallavolo o del rugby rappresenta di più la dinamica della vita sociale, dei gruppi che devono cooperare. Nella pallavolo, ad esempio, ci sono i tre passaggi: non puoi agire da solo, devi passare per forza; nel rugby, paradossalmente, si va avanti senza passare la palla indietro, quindi vuol dire che non si lascia indietro nessuno. Nella squadra paralimpica, invece, ho davvero ritrovato il Gioco. Pensiamo a come nasce il gioco: nasce dal piacere di condividere un momento. Lì ho finalemente trovato questo, lì dove ci sono meno soldi ho trovato semplicemente il piacere di condividere uno sport, che aiuta veramente queste persone, che magari in momenti di forte depressione hanno trovato un motivo per andare avanti.
Un aneddoto particolare riguarda proprio uno di questi ragazzini in carrozzina, è un ragazzino marocchino che sta anche facendo fatica a prendere la cittadinanza italiana, la nostra squadra nazionale gli ha messo gli occhi addosso, ma lui non può giocare perché non ha ancora la cittadinanza… è un po’ un delirio… lui, invece, ha uno spirito pazzesco, una forza e una volontà notevoli, e ciò mi ha fatto capire molto dei sacrifici che queste persone fanno e, al contempo, il piacere di condividere che c’è.
Le altre sono esperienze di professionisti, che hanno rinunciato a tante cose. A calcio, uno dei calciatori mi diceva che ha rinunciato all’infanzia. La sua infanzia è stata gettata dentro gli spogliatoi a competere con altri ragazzini per venire fuori più degli altri, quindi sempre in una continua competizione, quindi un percorso davvero duro. Una persona, dunque, non deve solo essere talentuosa nello sport, ma deve avere anche un carattere molto forte per poter poi incassare tutti i colpi e riuscire ad andare avanti.
LS: Certo, e tutto questo lo avete portato e tradotto in uno spettacolo teatrale.
ES: Uno spettacolo dal vivo, sì, ma non solo, perché poi, con tutto il materiale che ho raccolto, ho costruito un video, e ho creato un documentario che, in alcuni casi, viene proiettato prima o dopo lo spettacolo, per condividere con il pubblico il percorso di indagine.
LS: La Compagnia Zerogrammi, in realtà, si occupa di tante altre cose, sarebbe riduttivo dire solo che ha fatto Fuorigioco, perché sappiamo che siete stati ospiti del festival con altri spettacoli.
Un ultimo punto, l’Alcesti, quindi il mito. E quindi tappe diverse e molto, molto diversificate. C’è qualche progetto in cantiere?
ES: Sì, noi debutteremo a maggio al Pim Off di Milano, con un progetto che si chiama Jentu, che si ispira al Don Chisciotte. Sarà un lavoro firmato da Stefano Mazzotta, siamo adesso in piena sperimentazione, quindi faccio fatica ad anticipare un percorso che è in divenire. Sono curioso anch’io, il mio collega ci sta lavorando adesso, stanno costruendo il materiale; appena ci sarà la struttura, capiremo veramente che piede prenderà.
LS: In che direzione andrà…
ES: Esatto.
LS: Ultima cosa: si parla di danza contemporanea e voi siete sicuramente una delle compagnie più quotate, più conosciute in Italia. Qual è il polso della danza contemporanea? So che è una domanda impossibile, però, diciamo, dall’interno – ma non solo, perché questo lavoro implica anche conoscenza, una rete di visibilità notevole – dal di dentro, come sta la danza contemporanea, che sviluppi, che possibilità può avere, che strada sta prendendo? Perché tante volte si parla della multimedialità, di quanto si intrecci con le altre arti, dato che è un’arte che si sposa con questi nuovi approcci.
ES: È una bella domanda, una domanda difficile, non è facile rispondere… Penso, così come la nostra società muta continuamente, che anche il linguaggio e le forme espressive siano in continua evoluzione. Io penso che attualmente stiamo attraversando un momento di passaggio, in cui sicuramente delle cose stanno cambiando, per quanto riguarda i linguaggi espressivi. E quindi trovo che il pubblico faccia ancora molta fatica ad accettare dei lavori che magari portano con sé meno narrazione, che puntano più sull’astrazione, oppure semplicemente ad un concetto attorno al quale lavorano. Si fa ancora un po’ fatica. Sento che le persone vanno ancora a caccia di quelle dinamiche che sono in genere all’interno di spettacoli più classici, a cui siamo stati abituati sempre, ma nonostante tutto credo che negli anni siamo riusciti a conquistare una fetta di pubblico e, seppure la cosa vada a rilento, l’attenzione cresce. È chiaro che quando andiamo all’estero il confronto può scoraggiare, alle volte, specie in situazioni come quella che io porto sempre ad esempio, ovvero quando siamo stati ad Helsinki a fare uno spettacolo di teatro-danza per bambini, all’interno di un festival di teatro-danza dedicato ai bambini, laddove in Italia spesso si dice ai bambini:”Questo non è uno spettacolo per te!”. Questo è un grandissimo errore e io penso invece che il futuro sia proprio lavorare sulle nuove intelligenze, formare le nuove intelligenze, mettendo loro di fronte dei linguaggi di coreutici contemporanei, sin da piccoli, senza la necessità ogni volta di dover per forza spiegare o andare a caccia di significati. Loro, con la loro piccola esperienza di vita, con i loro background capteranno quello che…
LS: Assolutamente sì. Magari senza filtri capteranno ancora di più…
ES: E forse, anzi sicuramente, saranno più abituati a captare, a fruire di opere che non necessariamente attraversano un percorso prettamente narrativo, con una storia che ha un inizio, uno sviluppo e vissero felici e contenti.
LS: Grazie, Emanuele.
ES: Grazie a te.