I sette minuti che Bianca non vuole regalare all’azienda sono un simbolo: se cominciano a chiederti questo, quello che ti è dovuto sparisce.
(Ottavia Piccolo)
Cosa sono sette minuti nella vita di una persona? Probabilmente nulla. Il tempo di bersi un caffè o fumarsi una sigaretta. Ma se questi sette minuti si convertono nell’emblema di una sottomissione, di una rinuncia, di un abbassare la testa di fronte a una realtà che, in futuro, potrebbe diventare ben peggiore, ecco che assurgono a un ruolo ben più importante. È questo il fulcro della nuova pièce diretta da Alessandro Gassman, su testo di Stefano Massini, ispirata alla storia vera delle operaie della Maison Lejaby d’Yssingeaux, nell’Alta Loira, che, nel 2012, occuparono la fabbrica nel tentativo di mantenere il loro posto di lavoro e veder riconosciuti i loro diritti e la loro esperienza nella realizzazione di biancheria di lusso. Lo stabilimento venne chiuso ma le donne, oltre ad aver imparato a lottare, riuscirono ad attirare una tale attenzione mediatica da trovare i finanziamenti per aprire una boutique on-line.
In scena dal 30 gennaio al 1 febbraio nella Sala Assicurazioni Generali del Teatro Stabile Politeama Rossetti di Trieste, e poi in tour in altre città italiane, lo spettacolo 7 minuti si pone l’obiettivo di raccontare i punti di vista delle undici protagoniste, impegnate a decidere se rinunciare o meno ai sette minuti di pausa al giorno che gli spettano, a cui si aggiunge un protagonista d’eccezione: il pubblico presente in sala.
Lo stile ricorda da vicino La parola ai giurati di Reginald Rose, già messo in scena da Alessandro Gassman nella stagione 2008/2009, in cui la forza di volontà, e il coraggio, di un singolo essere umano riusciva a convincerne altri undici facendogli cambiare idea su una condanna a morte che sembrava ormai inevitabile. Anche in questo caso siamo di fronte a un personaggio di grande carattere, Bianca (interpretata da Ottavia Piccolo), la portavoce del consiglio di fabbrica, che, grazie alla sua capacità di vedere le cose a tutto tondo e di non lasciarsi influenzare dalle apparenze, intraprende una discussione con le sue colleghe per dimostrargli quanto sia ingannevole la realtà. Rinunciare oggi a quei sette “insignificanti” minuti, infatti, significherebbe vedersi costrette, in futuro, a rinunciare a qualcosa di molto più fondamentale: la dignità.
L’ambientazione, che in La parola ai giurati era la stanza in cui si riuniva la giuria, diventa qui lo spogliatoio della fabbrica con gli armadietti delle varie operaie diversamente ornati e decorati di fotografie a seconda della cultura, dei gusti, della mentalità, dell’estrazione sociale e della nazionalità delle donne coinvolte. È uno scontro generazionale, anche se lo scopo è raggiungere un accordo che possa soddisfare tutte, ed è, soprattutto, un diverso modo di concepire le priorità: le operaie più giovani, infatti, tendono a non vedere subito il lato negativo della rinuncia, pensano che l’importante sia non perdere il posto di lavoro e basta.
La pièce è concepita in modo da non giudicare nessuno dei personaggi e da non propendere per l’uno o per l’altro. Il pubblico stesso viene lasciato libero di decidere e, valutare, da che parte stare e quali opinioni condividere.
Alessandro Gassman ci tiene giustamente a sottolineare che ognuna delle attrici, prima di essere selezionata per la parte, è stata sottoposta a una lunga serie di provini da cui ne consegue che si trova lì per merito. E anche la pièce merita di essere vista.