Bérangère Jannelle è registra e curatrice dell’adattamento alla raccolta Vivre dans le feu, Confessioni di Marina Tsvetaeva. Nata a Parigi nel 1977, Bérangère Jannelle comincia a fare teatro già al liceo, per poi diventare assistente di registi come Stéphane Braunschweig, Carlo Cecchi ed Eric Vigner. Sempre pronta ad oltrepassare i confini natii per creare forti legami tra la Francia ed il panorama teatrale internazionale, ha riscoperto in Marina Tsvetaeva la figura dell’”engagement totale”, l’impegno assoluto.
Greta Travagliati (GT): Todorov parla di vita-scrittura riguardo alla produzione di Marina Tsvetaeva. Rappresentare sul palco il lavoro di questa poetessa non è une scelta né evidente né facile. Perché scegliere lei e la sua biografia?
Bérangère Jannelle (BJ): Per me il teatro e la vita sono intimamente legati. D’altra parte è proprio la specificità di ciò che chiamiamo comunemente spettacolo dal vivo che mi attira. Allo stesso tempo ho una passione per la scrittura, per la letteratura e per l’idea che l’invenzione di nuove forme artistiche sia in sé una rivoluzione. Da questo punto di vista, l’incontro con la scrittura di Marina Tsvetaeva è stato folgorante. Nei suoi scritti intimi, e in particolar modo nelle sue lettere, il posto del destinatario, dell’interlocutore, è richiamato senza sosta. Il che interpella in un certo modo lo spettatore, il teatro che diventa come una cassa di risonanza.
GT: Quali sono i principali ostacoli che ha incontrato nell’adattamento?
BJ: Mostrare Marina Tsvetaeva è un po’ come una corsa ad ostacoli ma visto che restiamo nel registro dell’eroico va tutto bene, tutto è vivo.
La difficoltà che si riscontra in Francia mostrando uno spettacolo della Tsvetaeva si trova essenzialmente nella traduzione. Se da una parte la prosa si può restituire con una certa forza, dall’altra rappresentare dei poemi basati su un rapporto con delle nuove sonorità, specifiche alla musicalità della lingua russa è una vera sfida. L’impegno fisico dell’attore diventa quindi essenziale: è attraverso il corpo che devono passare le scosse e le sorprese ritmiche, è il corpo che porta il lirismo. Nel corpo si forma e si trasmette la possibilità dell’incandescenza.
GT: Che cos’ha rappresentato per la sua vita personale e professionale l’incontro con Marina Tsvetaeva? Come l’ha scoperta e com’è nata l’idea di creare questo spettacolo?
BJ: Le poesie della Tsvetaeva hanno accompagnato tutti i miei studi, ma si trattava di un legame all’interno di un’intera “galassia” di poeti russi, Mandelstam, Block… È solo grazie a Tsvetan Todorov che ho scoperto i suoi diari. Il che ha agito su di me in modo allo stesso tempo fisico e spirituale. Oggi direi che nella vita si leggono cinque o sei libri che diventano dei fari dei “manuali di vita” con i quali si viaggia per degli anni e i Diari di Marina Tsvetaeva ne fanno parte. Artisticamente è stato poi il punto di partenza di una nuova ricerca sull’invenzione di forme teatrali strettamente poetiche, il che mi ha portato a lavorare oggi su Allen Ginsberg, per esempio…
GT: Come avete scelto i passaggi dei diari rappresentare? Quali hanno colpito la sua sensibilità e quali aspetti ha privilegiato nella messa in scena?
BJ: Ho scelto i passaggi in funzione di un filo emozionale, indipendentemente dai commenti che si potrebbero fare sui contenuti dell’opera: dalla risonanza del discorso sul mondo contemporaneo, soprattutto per quel che riguarda l’impegno assoluto, il rifiuto dell’ideologia di massa o del conformismo fino alla questione dell’essere allo stesso tempo donna e artista.
Ho poi preferito i passaggi in cui Marina usa lo humour, l’appropriazione indebita nello stile della piroetta infantile, del gioco di parole. “In me il tragico è sempre ripreso dall’incoscienza” per esempio è decisamente comico. Mostra la volontà di prendere in giro il proprio pathos, come una presa di distanza. C’è qualcosa che rientra nello stile del gioco che mi ha colpito. E poi l’adattamento obbedisce a una logica musicale e le scelte sono state anche ritmiche tra gli slanci e le rotture.
GT: Durante il suo spettacolo ho avuto la sensazione di partecipare a una sorta di “messa in scenografia” delle emozioni e delle parole. Crede che ci sia (in nuce) uno spessore teatrale nella produzione di Marina Tsvetaeva, o è piuttosto il teatro stesso che deve riadattare i testi ai propri mezzi di comunicazione, dotandoli quindi di una nuova forma di significazione?
BJ: La poesia di Marina Tsvetaeva rinvia a della immagini forti; e la sua scrittura mi pare movimento, marcia, cavalcata. C’è spesso qualcosa di epico. È questa dimensione teatrale propria alla poesia e ai diari che curiosamente è molto meno intensa nelle sue pièce scritte per il teatro.
Inoltre penso che il teatro sia una nuova forma di traduzione con dei mezzi soprattutto visivi. L’aspetto sonoro e visivo proprio a Vivre dans le feu permette di mettere in moto la ricezione su diversi livelli di coscienza, immaginario e sublimazione. Da questo punto di vista il teatro non è la restituzione di un’opera ma la sua continuazione e in egual modo la sua reinterpretazione, non fosse solo perché passa attraverso il prisma di un’artista la cui scrittura è la scena. Il che esalta alcuni aspetti della scrittura della Tsvetaeva e ne rivela forse altri, pur dimenticandone alcuni…
GT: Pensa che si potrà mai vedere il suo spettacolo all’estero, in Italia, per esempio?
BJ: Non penso che sia impossibile perché ci vorrebbe un sistema di traduzione colossale.