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L’amore che dà spettacolo: passioni esotiche tra spiriti liberi e cuori in catene

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La calura che contraddistingue le serate areniane ha potuto in qualche modo farci assaporare meglio le atmosfere esotiche dell’ardente Spagna e del torrido Egitto faraonico. Questioni climatiche a parte, i due rispettivi capolavori di Georges Bizet e Giuseppe Verdi – Carmen e Aida, di cui ci occuperemo – ci hanno inevitabilmente scaldato anche il cuore. Cos’è, in fondo, l’opera se non la messinscena di ardenti passioni raccontate a suon di musica e arte? Difficile rimanere indifferenti o nemmeno un po’ scottati. Come recita lo slogan che intitola questo 90° Festival Lirico veronese, “l’amore dà spettacolo”. Ma come nella vita così anche nel teatro, esso si presenta in mille forme e mille sfumature diverse.

Anita Rachvelishvili (Carmen)

Carmen è un personaggio simbolo dell’amore. Ma di che tipo? Carmen è l’emblema dell’amore passionale, sensuale e soprattutto libero, “che non ha mai conosciuto leggi”. Come mette subito in chiaro al suo ingresso, nella celeberrima Habanera, “Si je t’aime, prends guarde à toi” (“Se ti amo, attento a te”). Questo suo biglietto da visita suona quasi come una minaccia e fa di lei una sorta di trappola vivente cattura uomini, che non possono evitare di caderci e, anzi, a dirla tutta ci cadono volentieri. È lei a scegliere e a gestire le regole del gioco, lei decide chi amare e chi respingere. E una volta che il prescelto riesce a mettere le mani sulla splendida zingara, non creda di poterla avere tutta per sé da lì all’eternità. Come lei sceglie di dare il via alle danze, così decide quando è tempo che terminino.
Don José è uno dei tanti a scoprirlo sulla propria pelle. Il brigadiere per amore della bella sigaraia rinuncia a tutto, mette in secondo piano il suo onore e il suo lavoro. Prima ancora dimentica la sua promessa sposa Micaela, candida figura che ha tutto il sapore di una donna-angelo stilnovista in esatta antitesi con il corrotto personaggio di Carmen, personificazione dell’amore carnale. Ma alla purezza della sua rispettabile fidanzata, portatrice di soli valori positivi, il giovane soldato finisce per preferire la femme fatale buttandosi alle spalle un’intera vita da tipico bravo ragazzo. 
La tragedia si consuma nel momento in cui, dopo aver rinunciato a tutto per una cosa sola, questa sola cosa ad un certo punto spicca il volo. Ed è proprio questo che puntualmente accade a José: il sentimento che la volubile Carmen nutriva per lui si spegne col passare del tempo (non molto!), cambiando improvvisamente rotta all’indirizzo del torero più acclamato di Siviglia, il prode Escamillo. Per José tutto è perduto, non riesce ad accettare questo crudele abbandono e, smarrito nella sua debolezza e sopraffatto dal dolore, sfodera il pugnale e firma di sua mano il tragico epilogo. Ma fino alla fine è Carmen a dettare le regole, facendosi in un certo senso complice della sua stessa morte, coraggiosa artefice del proprio funesto destino. Non si lascia commuovere dalle implorazioni di José, deciso a riconquistarla, né tantomeno si lascia intimidire dalle successive minacce dell’uomo, fuori di sé dalla rabbia. “Carmen mai cederà! Libera è nata e libera morrà!”. Come sempre a testa alta, con queste fiere parole la donna pone un ultimo sigillo sulla sua indomabile vita di passione, poco prima che nel sangue si spenga la sua anima di zingara dal cuore nomade che aveva amato tanto e tanti aveva amato nel nome della libertà.

Carmen, scena ultima

Se abbandoniamo le corride ottocentesche, portiamo indietro la macchina del tempo di svariati millenni e perlustriamo le sponde del Nilo, ci troviamo comunque ad assistere a un nuovo scontro frontale tra Amore e Morte, il più classico dei binomi attorno cui tutto sommato ruota una consistente quantità di opere liriche, se non la maggior parte. Nemmeno per la coppia Aida-Radames si serba una sorte felice, e il loro amore contrastato su più fronti porta nel finale ad uccidere entrambi. A guardar bene, sin dal principio, le basi per una sana vita di coppia mancano totalmente. Aida è una splendida principessa, figlia di Amonasro, re degli etiopi, ridotta in schiavitù a Menfi presso i faraoni; Radames, prode eroe e valoroso guerriero, è capitano delle guardie egizie. Caso vuole che proprio tra Etiopia ed Egitto sia in atto una guerra feroce. Da qui nasce uno snodo cruciale attorno al quale ruotano l’intera opera e, in particolare, i sentimenti della protagonista. Durante tutta la vicenda vediamo Aida impegnata in un’eterna lotta tra l’amore per Radames e l’amore per suo padre, per il suo popolo, per la sua patria. Come le due controparti si affrontano sul campo di battaglia, così guerreggiano nell’animo della principessa schiava, dividendolo dolorosamente a metà. “Ah, non fu in terra mai da più crudeli angosce un core affranto”, si lamenta Aida nella sua celebre aria “Ritorna vincitor!”, in cui – rimasta sola in scena – si racconta con incredibile trasparenza, analizzando lucidamente il suo insanabile conflitto interiore.
A questo ostacolo decisamente scomodo se ne aggiunge un secondo non proprio trascurabile: la folle gelosia di un terzo personaggio – Amneris, principessa d’Egitto – che cerca in ogni modo di mettere i bastoni tra le ruote ad Aida e Radames, essendo perdutamente innamorata di quest’ultimo. Con spionaggi ed inganni, l’iraconda antagonista contribuisce all’arresto dell’uomo che ama innescando la serie di eventi che porteranno al triste epilogo dell’opera. Una volta che per l’amato guerriero è ormai certa la condanna a morte, distrutta dai sensi di colpa e dal sentimento che ancora nutre per lui, gli offre la libertà di fuggire. Radames però, uomo d’onore fino alla fine, rifiuta coraggiosamente e affronta la sentenza, andando incontro alla morte insieme alla sua amata Aida, che ha deciso di seguirlo fino alla tomba per spegnersi con lui in un ultimo lungo abbraccio. I due, nella morte e nell’isolamento dal mondo che con tanto accanimento li aveva contrastati, trovano finalmente la salvezza del loro amore, che solo sulla via della condanna può drammaticamente sopravvivere. Un altro amore finito tragicamente, certo, ma in modo diverso rispetto a quanto visto in Bizet. Mentre Carmen e José, ormai già distanti in vita, trovano nella morte di lei una separazione irreversibile ancor più abissale, per gli innamorati Aida e Radames “si schiude il ciel” e nella morte riescono finalmente ad unirsi con serenità, dicendo addio a quella terra che li voleva divisi.

Oksana Dyka (Aida)

Veniamo alle messinscene areniane di quest’anno.
Continuiamo per ora ad occuparci del capolavoro verdiano e vediamo cosa ci si presenta sul palco. Il progetto scenico si basa sui bozzetti del prezioso allestimento storico del 1913 firmato dall’architetto Ettore Fagiuoli, rievocato e ripreso oggi con rispettosa fedeltà dal regista Gianfranco De Bosio. Il risultato è un classico dei classici di stampo tradizionale come ormai all’Arena siamo abituati a vedere. Certo, da un’impostazione all’antica derivano anche necessari difetti quali i cambi di scena interminabili che hanno esteso la durata dell’opera a più di quattro ore, mettendo a dura prova la pazienza degli spettatori. Ma la straordinaria resa visiva ripaga ampiamente la fatica, ed è una vera soddisfazione trovarsi davanti ad un lavoro così ben congegnato, mastodontico e armonioso al tempo stesso, che valorizza l’enorme spazio areniano sposandosi nei colori e nelle forme con i gradoni scaligeri retrostanti al palco, che fluidamente divengono continuità dello spazio scenico dando vita a un tutt’uno di omogenea bellezza. Se questa rappresentazione di “Aida” è un piacere per gli occhi, lo è assai meno per le orecchie. Esclusa la buona direzione del Maestro Placido Domingo che ci ha piacevolmente sorpreso, “Numi, pietà!” per il comparto canoro, senza dubbio il tallone d’Achille della serata. Nel ruolo del titolo troviamo Oksana Dyka, il cui punto debole più lampante è la complessiva freddezza interpretativa che sul piano vocale si traduce in mancanza di colori e sul piano scenico in una rigida inespressività che va a distruggere l’essenza sfaccettata di un personaggio psicologicamente complesso come Aida. Al suo fianco, il Radames di Jeorge de Leon che, dotato di bel timbro ma carente dal punto di vista tecnico, ci fa ascoltare una traballante zona centrale e acuti sgradevolmente sporchi e spinti. Da dimenticare l’interpretazione del mezzosoprano Tichina Vaughn nel ruolo di Amneris, che snocciola una serie di note ingolate e sbilenche accompagnate dall’inesistenza del fraseggio, da cui deriva una dizione italiana incomprensibile. Sciupato dal tempo che passa l’Amonasro di Ambrogio Maestri, di cui si intravede ancora l’antica qualità vocale che però ha perso smalto costringendo l’artista a mascherare questo declino con declamati caricaturali che spezzano più volte la linea di canto. Per ricoverare le orecchie dobbiamo andare a scomodare i due eccellenti comprimari Carlo Cigni (Il Re) e Giorgio Giuseppini (Ramfis, grande sacerdote), entrambi notevoli bassi dotati di una splendida voce gestita come si deve.

Aida - Antepiano

Lasciamo le note dolenti di “Aida” e godiamoci il trionfo musicale di una “Carmen” indimenticabile.
Il ruolo della protagonista è affidato ad Anita Rachvelishvili, sicuramente una delle migliori Carmen del panorama lirico contemporaneo. La sua bella voce, che corre nell’anfiteatro con una facilità sconvolgente, è corposa, dotata di incredibile volume e di piacevole timbro scuro. Uno strumento di valore impreziosito ulteriormente dall’espressività canora e teatrale del mezzosoprano georgiano, che dimostra di trovarsi a suo perfetto agio in questa parte dandone un’interpretazione da manuale veramente memorabile. Non è da meno il Don José di Alejandro Roy, che sostituisce all’ultimo un indisposto Marcelo Alvarez e non ne fa sentire la mancanza. Il tenore spagnolo tratteggia efficacemente il suo personaggio in tutte le sue sfaccettature, dal bravo ragazzo timido dell’inizio al disperato uomo violento della fine, dando proprio qui il meglio di sé regalandoci una scena ultima di straziante intensità. Tutto questo è corredato da una bella linea di canto sostenuta da una voce piacevole e solida tecnica. Meno brillante il torero Escamillo, che ha le statuarie e fascinose sembianze del basso bulgaro Deyan Vatchkov, protagonista di una prova non entusiasmante, ma tutto sommato corretta. Eccellente, infine, la performance di Irina Lungu, interprete di una dolcissima Micaela cantata davvero divinamente. L’artista russa ci fa ascoltare un’interessante voce di soprano lirico caratterizzata da un’ampia gamma di colori e da suoni puliti e limpidi nella zona centrale come in quella acuta. Ai limiti della perfezione la sua commovente aria “Je dis que rien ne m’epouvante”, gemma preziosa incastonata nel terzo atto. Tutte queste straordinarie voci fanno diligentemente capo all’esperta bacchetta di Julian Kovatchev, che con occhio attento sorveglia la buca e il palco curando ogni dettaglio e fornendo della partitura una lettura avvincente ricca di pathos e buon gusto.

Carmen - Antepiano

Questa straordinaria resa musicale del capolavoro di Bizet trova ambientazione in un altrettanto riuscito contesto scenico. L’allestimento è quello di Franco Zeffirelli e davvero non si può dire che gli manchi nulla. Nel classico solco della tradizione, il Maestro ricrea la frizzante Siviglia in un tripudio di colori, gente che va e gente che viene a confluire in una folla chiassosa e disordinata, resa realistica dall’esagerato numero di coristi e comparse. I festosi cortei, i giochi, le danze, tutto trova posto nella cornice spagnoleggiante di variopinti tendaggi, stoffe e arazzi rosso fuoco secondo equilibri compositivi quantomai pittoreschi. Questa pulsante joie de vivre che si sprigiona dall’enorme palcoscenico purpureo abbraccia l’intero anfiteatro ed il suo pubblico, rendendolo più che mai partecipe e quasi catapultandolo in scena: una magia cui raramente in teatro si può assistere se non in pochi luoghi eletti, e l’Arena è uno di questi.


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