A livello mondiale, La vedova allegra è conosciuta come l’operetta per antonomasia. Dal 1905 in poi ne sono stati realizzati talmente tanti allestimenti, adattamenti, riduzioni e perfino balletti che non passa anno senza che in qualche teatro si sentano risuonare le sue celebri melodie.
Chi non ha avuto modo di vederla dal vivo sul palcoscenico si è quasi sicuramente imbattuto in almeno una delle tre più note pellicole che ne sono state tratte, dirette, rispettivamente, da Erich Von Stroheim (1925), Ernst Lubitsch (1934) e Curtis Bernhardt (1952).
Se il nome del compositore austriaco Franz Lehár è facilmente associabile alla suddetta operetta, è molto più difficile attribuire l’origine del testo al francese Henri Meilhac. Meilhac, infatti, autore molto noto nell’Ottocento e attualmente ricordato soprattutto per i libretti scritti in collaborazione con Ludovic Halévy e musicati da celebri compositori, è uno dei commediografi le cui opere, a differenza di quelle di Eugène Labiche e Georges Feydeau, vengono rappresentate assai di rado. Gli studi riguardanti i suoi lavori sono praticamente inesistenti e la biografia più dettagliata è quella riportata dallo studioso Henri Gidel nel volumetto Il vaudeville (1986), dedicato proprio a questo genere teatrale:
Henri Meilhac (1831-1897): nato e morto a Parigi. Da giovane lavora come commesso di libreria per poi diventare giornalista e disegnatore (Le Journal pour rire, La vie parisienne). Nel 1855 debutta in teatro con due vaudeville, Pensa a te che a me ci penso io e Satania, e una serie di commedie. Incontra Ludovic Halévy con il quale collaborerà per circa vent’anni. Con lui compone inizialmente delle commedie – la prima sarà Ciò che piace agli uomini (1860) – per poi passare alle opere buffe le cui musiche sono spesso composte da Offenbach, La bella Elena (1864), Barbablù (1866), La Granduchessa di Gérolstein (1867), La Périchole (1868), La vita parigina (1868) e il libretto di Carmen (1875), la celebre opera di Bizét.
Non bisogna, però, dimenticare che Meilhac e Halévy sono anche autori di commedie e vaudeville dalla fantasia briosa; tra questi ultimi vale la pena citare Il brasiliano (1863), dove compare per la prima volta la figura dello straniero che vive in Francia che poi sarà ripresa nelle pièces di Feydeau La palla al piede (1894) e La pulce nell’orecchio (1907); Tricoche e Cacolet (1871); Il veglione (1872), che ispirerà l’operetta Il pipistrello di Johann Strauss, e La borsa dell’acqua calda (1874). Meilhac da solo scriverà altri vaudeville come Decorato (1888) e Mia cugina (1890) […]. Questi testi, ad eccezione di Decorato in cui il critico Francisque Sarcey riconosce la struttura della pièce bien faite, valgono non tanto per la comicità d’intreccio quanto per l’ingegnosità e il divertente campionario di figure appartenenti alla società parigina che sfila sotto gli occhi dello spettatore.[1]
Il critico che ha maggiormente contribuito a mettere in risalto l’opera di Henri Meilhac, sia quando questi era ancora in vita che negli anni immediatamente successivi alla sua morte, è Francisque Sarcey, autore dell’opera in otto volumi Quarante ans de théâtre (1900) che raccoglie tutti gli articoli da lui redatti nell’arco di quarant’anni nonché i coccodrilli dedicati alla scomparsa di autori celebri. Proprio in uno di questi ultimi, Sarcey descrive minuziosamente il modo in cui il commediografo era solito rappresentare la figura femminile:
È proprio questa fanciulla, o giovane donna, dai modi troppo vivaci e troppo decisi, che Meilhac ha raccolto dalle mani di Marivaux, o piuttosto che ha rappresentato tenendo conto degli usi e costumi del Secondo Impero. Le donne di Marivaux erano donne oneste che soffrivano solo di caldane. Quelle di Meilhac sono donne nervose, e questo loro sistema nervoso è delicato, sofferente, esasperato; anche se le induce a restare quasi sempre oneste. Provate a sfogliare l’intera opera dell’autore; vi accorgerete subito che quasi tutte si fermano un attimo prima di macchiarsi di una colpa, o che, se se ne macchiano, la colpa è solo e soltanto di quell’imbecille di marito che si ritrovano accanto. Si tratta di donne il cui carattere si contraddistingue più per la curiosità che per il temperamento; assaporano l’amore, senza tuttavia essere davvero innamorate […]. Giudicano gli uomini per ciò che valgono e ne provano disprezzo non appena una determinata circostanza fa aprire loro gli occhi. Non sono perverse […] ma sono molto disinvolte nel far durare a lungo i brutti tiri che vogliono giocare. Si fanno beffe delle passioni che suscitano e scherniscono i babbei, composti per lo più da uomini di mondo che fanno loro la corte. […]
Dal mio punto di vista, la caratteristica principale di Meilhac era proprio questa: era un grande osservatore e sapeva riprodurre – con un solo tratto netto, preciso e leggermente caricaturale – ciò che vedeva. La seconda sua caratteristica fondamentale, invece, era l’incredibile fantasia.[2]
Se il legame esistente tra Meilhac e Marivaux è innegabile – anche per il modo in cui i personaggi maschili e femminili di entrambi gli autori intraprendono lunghe conversazioni durante le quali faticano a confessarsi i reciproci sentimenti – è importante sottolineare che, in alcuni casi specifici, il classico intreccio concepito da Meilhac assume più i contorni di una fiaba che di una commedia o di un vaudeville. È quanto succede, ad esempio, ne L’attaché d’ambasciata. La struttura utilizzata da Meilhac, infatti, richiama da vicino le sfere d’azione che Vladimir Propp applica alle fiabe di magia.[3] Volendo sintetizzare la pièce avvalendosi degli elementi individuati dallo studioso russo, ne risulterebbe lo schema seguente:
Principessa: Madeleine Palmer, ricca vedova;
Eroe: Conte Prax che, per buona parte del testo, cerca in tutti i modi di nascondere le sue buone azioni e di farsi passare per Falso eroe negando l’amore che prova per la vedova;
Antagonista: Frondeville che, con l’inganno, cerca di costringere Madeleine Palmer a sposarlo;
Aiutante: Monsieur Figg, che nella prima parte sembra un semplice galoppino del Barone Scarpa e invece poi si rivela il vero aiutante del Conte Prax;
Mandante: Barone Scarpa che ordina al Conte Prax di ostacolare in tutti i modi un possibile matrimonio della vedova.
Il fatto che l’opera possa essere riassunta in queste poche righe rende evidente quale sia la caratteristica che impedì ai critici francesi dell’epoca di apprezzarla: ha una trama sottile come la carta velina e i personaggi non hanno alcuna profondità psicologica. Tuttavia, tutti i personaggi messi in scena da Meilhac seguono un loro principio di condotta che ne determina il modo di pensare e di agire. Madeleine Palmer ritiene di avere il diritto di essere amata indipendentemente dai milioni posseduti e, con il suo comportamento, cerca di comprovare questo suo diritto; il Conte Prax è un uomo che non sopporta i soprusi ma non ci tiene nemmeno a vantarsi delle sue buone azioni e, di conseguenza, si costruisce una perfetta maschera di viveur che gli sta comoda e gli permette di nascondere perfettamente il suo vero carattere; il Barone Scarpa è convinto che il bene del suo sovrano e del suo paese venga prima di tutto, anche prima della dignità, e infatti non si accorge che la moglie lo inganna; Frondeville è un uomo disposto a tutto pur di raggiungere i suoi scopi nella vita e, per questa ragione, è pronto a passare sopra il cadavere di chiunque; Monsieur Figg ama proteggere le persone a cui vuole bene, e questo lo porta a combinare un sacco di guai.
Se nel 1861, in Francia, L’attaché d’ambasciata non ricevette quella che si può definire una calorosa accoglienza, alcuni anni dopo, a Vienna, le opere di Meilhac e quelle di molti altri autori francesi erano destinate a influenzare in modo decisivo il genere operettistico:
Il teatro parigino ha esercitato un forte ascendente sull’operetta viennese fin dalle sue origini. A partire dal 1858, Johann Nestroy fece rappresentare Il matrimonio con le lanterne di Offenbach al Carltheater di Vienna. Il successo di Nestroy favorì, tra il 1860 e il 1863, la venuta della compagnia dei Bouffes Parisiens e in seguito Offenbach fu invitato più volte a dirigere a Vienna. […] Nel 1870, il numero totale delle operette di Offenbach rappresentate a Vienna raggiunse quota settanta. Non deve stupire, quindi, che i librettisti viennesi iniziassero a ispirarsi agli autori francesi (soprattutto Meilhac e Halévy). […]
Un’influenza di questo tipo non impedì all’operetta viennese di distinguersi rapidamente dal modello di Offenbach. Anche se, sia a Vienna che a Parigi, la frivolezza veniva utilizzata come arma politica, la strategia del travestimento musicale e drammaturgico e il gioco del “doppio senso” si dimostravano leggermente meno aggressivi, quantomeno in superficie. […] La musica si rivelò la soluzione chiave per divertire le masse austriache. Fedeli all’idea dell’impero austroungarico, i compositori sfruttavano tutte le tipologie di linguaggi musicali, che potevano essere assaporati come un puro divertimento musicale, un’autocelebrazione nostalgica (soprattutto per gli immigrati recenti) o un fantasma coloniale[4].
Nel 1862, un adattamento tedesco della pièce dell’autore a cura di Alexander Bergen, Der Gesandschafts Attaché, fu rappresentato sul palcoscenico del Carltheater. Il successo fu buono e, rispetto al testo originale francese, riuscì ad attirare l’attenzione della critica e del pubblico al punto da essere oggetto di un regolare riallestimento nel corso degli anni seguenti. Nei primi mesi del 1905, Leo Stein ebbe modo di assistere a una di queste repliche e intuì che se ne poteva ricavare un libretto da operetta. Informò della cosa il collega Viktor Léon, che, anni dopo, avrebbe ottenuto una certa notorietà scrivendo libretti tratti dalle pièces più celebri di Victorien Sardou, e insieme collaborarono alla stesura del testo. Il risultato presentava diverse modifiche rispetto all’originale: il principato tedesco di Birkenfeld fu sostituito con quello del Pontevedro – l’interesse politico e strategico nei confronti della Bosnia Erzegovina e del vicino Montenegro, infatti, stava crescendo, e i due librettisti erano consapevoli delle aspirazioni coloniali dell’Impero asburgico –; il Barone Scarpa divenne il Barone Mirko Zeta – Zeta era l’antica denominazione storico geografica del Montenegro –; Madeleine Palmer fu sostituita da Hanna Glawari, originaria di Letinje – Cetinje, un tempo, era la capitale del Montenegro –; il conte Prax divenne il conte Danilo – che, nella realtà, era il marito della duchessa tedesca Jutta von Mecklenburg-Sterlitz (1880–1946) ma che era anche il principe Danilo Petrović, erede della dinastia reale del Montenegro –.[5]
Anche la trama, se confrontata con L’attaché d’ambasciata di Henri Meilhac, si distingueva per una serie di differenze non proprio sottili: l’intreccio è più esile e ciò permette di renderlo più funzionale alla musica; la figura del pericoloso antagonista Frondeville scompare del tutto, così come quella dell’amico del conte Prax, Lucien de Méré; il conte Danilo non si rende protagonista di alcuna buona azione ma si limita a comportarsi da viveur buontempone; nell’originale, Madeleine Palmer e il conte si incontrano per la prima volta durante la festa in ambasciata, Hanna Glawari e Danilo, invece, si conoscono da anni e, in passato, hanno vissuto un’intensa storia d’amore, il che è motivo di continui battibecchi.
Malgrado l’impegno dei cantanti chiamati a ricoprire i ruoli principali e secondari, le prime rappresentazioni di Die lustige Witwe faticarono a incontrare il favore del pubblico, e perfino quello dei librettisti stessi, a causa delle scelte musicali operate da Franz Lehár. Il compositore, tuttavia, rimase fermo nei suoi propositi e difese strenuamente il suo lavoro decretandone, così, il definitivo successo:
Un paio di anni fa, quando mi gettai a capofitto nell’operetta viennese, alla cieca e da persona ignara, pensavo che la mia ignoranza del mestiere si sarebbe rivelata un vantaggio permettendomi di sperimentare cose nuove: come qualcuno che scava un tunnel nell’oscurità di una montagna e fa emergere la luce dall’altro lato. Volevo soggetti nuovi, nuovi collaboratori e nuove forme, e questo perché sono un uomo che vive nel presente e non un’eco del passato. Die lustige Witwe è un esperimento! Se Viktor Léon e Leo Stein si aspettavano un’ordinaria farsa musicale intervallata da numeri di ballo e canzoni che accompagnano le bevute, hanno preso una colossale cantonata. Ammetto che, in quanto prodotto teatrale, l’operetta debba soddisfare, almeno entro certi limiti, i gusti del pubblico. Tuttavia non è scritto da nessuna parte che debba per forza trattarsi di una farsa o di una commedia. Per me l’operetta non deve in alcun modo essere assurda. Voglio scrivere musica destinata alle persone e per le persone, qualcosa che abbia a che fare con il loro cuore e la loro anima, che susciti emozioni, passioni, gioia e tristezza.[6]
Qui è possibile leggere il testo dell’Attaché d’ambasciata di Henri Meilhac:
L’attaché d’ambasciata