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Il signore va a caccia di Georges Feydeau

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Il signore va a caccia (locandina)I personaggi maschili delle opere di Georges Feydeau (1862-1921) si sono quasi sempre distinti per la loro naturale inclinazione alla bugia. Il più delle volte, un simile “talento” viene da essi sfruttato quando si tratta di compiere una scappatella e mantenere una certa onorabilità agli occhi della moglie e del bel mondo; in alcune rare circostanze, la menzogna serve invece ad attribuirsi capacità o doti non possedute allo scopo di distinguersi all’interno del proprio ambiente sociale (vedesi, ad esempio, Vatelin del Tacchino (1896) che si dichiara un estimatore di quadri e in realtà colleziona solo croste, o Bouzin della Palla al piede (1894) che si crede un grande compositore e invece scrive canzoni di dubbio gusto). Qualunque sia il motivo che induca tali personaggi a mentire, vi è comunque una soglia oltre la quale non riescono mai ad andare, un po’ perché il ritmo vorticoso delle pièces che protagonizzano non glielo consente, un po’ perché anche la loro fantasia finisce prima o poi per esaurirsi e acquisiscono la consapevolezza di non avere altra soluzione che assecondare gli eventi che li stanno travolgendo.

Il signore va a caccia, composta da Feydeau nel 1892, e quindi alcuni anni prima che il noto commediografo conoscesse gli enormi successi dell’Albergo del Libero Scambio (1894), del Tacchino, La palla al piede e La signora di Chez Maxim (1899), presenta un personaggio che va oltre la normale menzogna per convertirsi in un bugiardo patologico. La struttura stessa della pièce lascia presagire questa possibilità, visto che non si tratta affatto di una commedia di movimento ma, piuttosto, di una commedia di linguaggio dove i dialoghi hanno la meglio su porte che sbattono (poche) ed entrate in scena impreviste (numerose ma ben lontane da quell’inarrestabile flusso di entrate-uscite che contraddistingue la più movimentata Il Tacchino). In alcune scene del copione, i personaggi intavolano vere e proprie conversazioni che non hanno lo scopo di indurli a compiere un’azione precisa ma piuttosto di evidenziarne l’atteggiamento agli occhi dello spettatore e di sottolinearne la vacuità mentale (parlano, parlano, ma non arrivano a nulla e, spesso, i loro ragionamenti sono totalmente privi di logica). In un simile ambiente si muove Duchotel, oggetto della presente analisi.

Dal punto di vista umano, il personaggio è identico in tutto e per tutto a tanti altri protagonisti delle pièces di Feydeau: vanitoso, superficiale, privo di cultura e di intelligenza, interessato solo a soddisfare gli istinti primordiali e a preservare la propria integrità sociale perché questo gli è stato insegnato fin dall’infanzia. Dal punto di vista della parlantina, però, le sue doti sembrano essere impareggiabili. Messo alle strette di fronte all’ennesima bugia, riesce a dimostrare un’eccezionale capacità di reazione e a schivare il colpo aggrappandosi al primo avvenimento assurdo che gli passa per la testa. Volendo riassumere in un breve elenco la serie di menzogne inanellate da Duchotel nel corso dei tre atti della commedia, si ottiene lo schema seguente:

Atto primo:
1) Racconta alla moglie di andare a caccia e invece si reca dall’amante;
2) Dichiara che alla battuta di caccia partecipa anche l’amico Cassagne che in verità non sa nemmeno cacciare;
3) Sostiene di aver letto il libro di poesie di Moricet, ma in realtà lo utilizza per reggere la gamba del tavolo;
Atto secondo:
4) Dice alla portinaia dell’alloggio in cui risiede l’amante di essere un parente di quest’ultima;
Atto terzo:
5) Ripete alla moglie di essere stato a caccia;
6) Asserisce di avere ucciso un capriolo e un gallo cedrone;
7) Afferma di essere stato sorpreso da un temporale, essersi bagnato i pantaloni e averli dovuti cambiare;
8) Dichiara che Cassagne, a causa di un grave colpo di calore sofferto in passato, soffre di vuoti di memoria e non ricorda più di essere stato a caccia con lui;
9) Sostiene che i pantaloni dell’amico Moricet sono in realtà i pantaloni di Cassagne;
10) Chiede a Cassagne di coprirlo davanti alla moglie e quando lui lo fa lo accusa di essere un bugiardo;
11) Dice alla moglie che l’alloggio dell’amante è una casa al mare che lui voleva affittare per lei;
12) Quando il commissario gli chiede chi è il Signor Duchotel, lui risponde indicando Moricet;
13) Dopo che le sue menzogne sono state smascherate, afferma di non essere capace di mentire.

Il signore va a caccia (locandina)Come si può immaginare, l’aumento esponenziale del numero di falsità dichiarate dal personaggio durante il terzo atto inducono la moglie, Léontine, a credergli sempre meno. Tuttavia, un simile atteggiamento palesemente patologico ha una sua specifica ragione d’essere: se all’inizio Duchotel mente per il puro piacere di andare a spassarsela, in seguito la menzogna diventa una questione di principio. Non si tratta tanto del timore di perdere la faccia o di essere considerato un marito infedele – all’epoca, l’infedeltà maschile era accettata, quella femminile pesantemente punita, come spiega anche il personaggio della portinaia – si tratta, piuttosto, di dimostrare la propria superiorità sugli altri.

Duchotel si comporta in modo sprezzante: non gliene importa niente dell’amico Moricet, che mette tranquillamente nei guai, né dell’amico Cassagne, che usa come alibi perché da lui ritenuto un imbecille e la cui moglie è la sua amante; si disinteressa del parentado, in quanto per lui il nullafacente nipote Gontran è solo un ragazzino rompiscatole, e non ama affatto la moglie Léontine che funge più da elemento decorativo e in quanto tale va preservato. È talmente sicuro della sua furbizia – che in realtà è ottusa imbecillità – da negare sempre tutto, persino quanto da lui stesso sostenuto un istante prima. Ed è così impegnato ad “annaspare”, come afferma Léontine, da non accorgersi della corte spietata di Moricet a sua moglie. Questi tratti caratteristici rendono Duchotel un personaggio più complesso di quanto di primo acchito possa sembrare, perché qui la bugia non porta al soddisfacimento di un desiderio materiale o carnale ma assurge a regola di vita. Duchotel è disposto a distruggere la reputazione di chiunque gli capiti a tiro e benché, a causa della sua stupidità, non sempre ne sia del tutto consapevole, è l’esempio vivente del detto secondo il quale un amico sciocco è più pericoloso di un nemico intelligente.

Aspetti linguistici

Nell’ambito della presente analisi va specificato che un copione teatrale è un testo scritto che vuole essere mimesi del parlato. Ogni personaggio, nel suo modo di esprimersi, compie dunque degli atti linguistici che, in base alla teoria sviluppata da John Langshaw Austin, ed esposta nel volume How to Do Things with Words[1] (1962), possono essere distinti in atti locutivi (emissione dell’enunciato con il suo significato), atti illocutivi (cosa vuole fare il locutore con il suo dire qualcosa) e atti perlocutivi (il modo in cui si vuole modificare lo stato psicologico o il comportamento di chi ascolta). Per quanto riguarda gli atti illocutivi, lo studioso John Roger Searle, partendo dall’analisi di Austin, li suddivide in: atti rappresentativi (dico, sostengo affermo); atti espressivi (approvo, disapprovo); atti verdittivi (giudico, considero, ritengo); atti commissivi (prometto, giuro, mi impegno a); atti direttivi (ordino, comando) e atti dichiarativi (ti sposo, ti battezzo, dichiaro aperta la seduta).

Applicando la classificazione di cui sopra al modo di esprimersi utilizzato da Duchotel si evince che egli non formula mai delle ipotesi e abolisce completamente strutture quali io penso, io credo, io immagino per focalizzarsi solo su quanto egli afferma, sostiene e dice. Nei casi estremi, in cui le circostanze obbligano il personaggio ad andare oltre la semplice affermazione, egli promette, assicura e giura. In alcuni casi, il suo affermare è accompagnato da azioni eloquenti il cui scopo è aumentare la sua credibilità. Vedesi ad esempio quando, nella scena terza dell’atto terzo, entra in casa tenendo il paniere a braccia tese all’altezza della testa per farsi bello agli occhi della moglie, dimostrarle di essere un bravo cacciatore e confermare la storiella che le ha raccontato nell’atto primo:

Duchotel (è vestito come nell’atto primo, tranne che per i pantaloni che sono quelli indossati da Moricet nell’atto secondo, e porta il fucile nella sua custodia ad armacollo. Regge un enorme paniere che cerca di mettere in bella mostra tenendolo a braccia tese e all’altezza della testa) Signora!… Dov’è la signora?
Posa il paniere sul mobile in fondo, a sinistra.
Léontine Sei già qui?
Duchotel Ah, Léontine! La mia Léontine!
Le corre incontro e la abbraccia.
[…]
Léontine (nel momento in cui Duchotel torna verso di lei, ad alta voce) Non ti sei stancato troppo durante la caccia, vero?
Duchotel Niente affatto!… Niente affatto!… Anzi!
Léontine (schernendolo) Ah! Mi fa molto piacere!
Duchotel È stata una caccia magnifica!
Léontine Ah?
Duchotel (andando da lei) Figurati che abbiamo iniziato alle sette del mattino e poi…
Babet (che si trova a sinistra, poco oltre il tavolo) Il signore non ha preso freddo?
Duchotel (stoltamente) No, ero al calduccio!
Léontine (prontamente) Eri al calduccio?
Duchotel (riprendendosi dalla gaffe) Ero al calduccio… nei miei vestiti! Allora!… Ma comunque non vedevo l’ora di tornare!… Sai è strano, ma quando sono lontano da te… Pensa che Cassagne voleva assolutamente che restassi con lui!
Léontine (schernendolo) Ma davvero?
Duchotel Ma io non ho voluto sentire ragioni!… Gli ho detto: “Abbiamo cacciato per cinque ore… basta e avanza!… Io torno dalla mia mogliettina adorata!”.
(Il signore va a caccia, scena terza, atto terzo, traduzione mia)

Ovviamente, poiché Feydeau ama farsi beffe delle sue creature, la messinscena finirà per rivelarsi inutile visto che il paniere non contiene qualche preda di caccia, come sperato da Duchotel, ma numerose confezioni di paté.

Cassagne e Moricet, i due amici più intimi del protagonista, si convertono a loro volta in vittime degli atti linguistici da lui pronunciati. Poiché, infatti, egli non ammette in alcun modo di essere contraddetto, e quindi comanda, ordina ed esige, finisce per angariare i due coinvolgendoli in azioni prive di logica. In un caso, restituisce a Moricet i suoi pantaloni per poi cercare disperatamente di strapparglieli dalle mani asserendo che il legittimo proprietario è Cassagne; in un altro, spinge con forza quest’ultimo nella stanza accanto urlandogli: “Vai di là!” per toglierselo dai piedi e risparmiarsi ulteriori guai.

Altri bugiardi teatrali

La storia del teatro è costellata di figure dal comportamento menzognero. Dallo Pseudolo (191 a.C.) di Tito Maccio Plauto al Bugiardo (1750) di Carlo Goldoni passando per La verdad sospechosa (1618-1621) di Juan Ruiz de Alarcón, Il bugiardo (1644) di Pierre Corneille e Il Tartufo (1664) di Molière. Ognuno dei personaggi protagonisti delle succitate pièces appartiene a un ceto sociale distinto e si avvale della menzogna per scopi diversi. Inoltre, quasi tutti gli autori hanno composto i loro testi subendo l’influenza di qualche altro autore che li ha preceduti.

Pseudolo di PlautoLo Pseudolo di Plauto, servo fedele di Calidoro, orchestra tutta una serie di raggiri per consentire al giovane padrone di mettere le mani sulla cortigiana Fenicia, da lui amata alla follia. Dopo aver portato felicemente a termine l’impresa, si gode la soddisfazione di vedere il padrone contento e si guadagna un boccione di vino. La commedia si distingue per essere l’unica, assieme allo Stico, a cui si può attribuire una datazione certa, e per essere giunta fino a noi interamente conservata, didascalie comprese. Secondo lo studioso Ettore Paratore, l’idea di fondo è il risultato della giustapposizione di un modello greco (verosimilmente il Sárdios di Filemone di Siracusa) e di una situazione già sviluppata dallo stesso Plauto nel Gorgoglione. La trama risulta quindi essere un’elaborazione dello schema della commedia attica nuova e della fabula palliata latina[2].

La verdad sospechosa[3], di Juan Ruiz de Alarcón, ha invece per protagonista Don García, figlio di Don Beltrán e corteggiatore di Doña Jacinta. Pur di conquistare la donna, di cui è davvero innamorato, il personaggio imbastisce una serie di menzogne che, alla fine, saranno pesantemente punite con l’obbligo di contrarre matrimonio con un’altra donna che egli non ama affatto. La commedia presenta una struttura particolare in quanto, nel corso dei tre atti, si evolve fino a estinguere completamente la vena comica che l’ha caratterizzata fin dall’inizio per poi concludersi con una punta di amarezza. Questo perché l’autore attribuisce notevole importanza alla nobiltà e all’onore e ritiene che la menzogna sia profondamente disdicevole; caratteristica, quest’ultima, che si evince anche in molte altre sue opere, per lo più dramma a tesi che si pongono l’obiettivo di combattere i vizi sociali[4]. Ecco dunque spiegata la ragione per cui la peggiore condanna per Don García, nobile di nascita ma non di animo, finisce per essere una vita di frustrazione lontano dall’essere tanto agognato e amato.

Il bugiardo[5] di Pierre Corneille riprende la trama della Verdad sospechosa di Alarcón, al punto da calcare, nella scena terza dell’atto quinto, il dialogo tra padre e figlio in cui il primo spiega al secondo che la nobiltà di sangue non fa l’uomo nobile se egli stesso non si comporta in modo virtuoso. Tuttavia, Corneille ne fa una commedia dall’intreccio e dal dialogo vivaci e spontanei eliminando anche l’amarezza del finale. All’epoca, l’autore credette inizialmente che La verdad sospechosa fosse di Lope de Vega perché era stata attribuita a lui:

“Questa pièce è in parte tradotta, in parte imitata dallo spagnolo. Il soggetto è così spiritoso e ben concepito che ho spesso dichiarato che avrei voluto donare due dei più bei testi da me realizzati pur di essere in cambio il creatore di quest’ultimo. È stato attribuito al famoso Lope de Vega, ma un po’ di tempo fa mi è capitato tra le mani un volume di Don Juan Alarcón, in cui sostiene di essere lui l’autore del testo e dove si lamenta dei tipografi che hanno fatto uscire la sua opera con il nome di un altro. Se come egli dichiara, ne è il legittimo proprietario, è giusto che se ne riappropri. Qualunque sia la mano che l’ha composta, è evidente che si tratta di un’opera molto ingegnosa; e non ho mai trovato in lingua spagnola un testo che mi abbia soddisfatto di più. Ho cercato di ridurla in base agli usi francesi e alle nostre regole; ma sono stato costretto a fare uno sforzo nei confronti dell’avversione che nutro per gli a parte, dai quali non mi è stato possibile depurarla in quanto avrebbe perso gran parte della sua bellezza. Ho fatto in modo che gli a parte fossero di notevole brevità, e me ne sono avvalso in rare occasioni, impedendo che due attori si trovassero insieme a conversare sottovoce mentre altri erano impegnati a dire cose che i primi non dovevano sentire. Questa specifica duplicità d’azione non rompe l’unità principale, ma disturba un po’ l’attenzione dello spettatore che non sa quale conversazione ascoltare e si trova quindi costretto a impegnarsi su due fronti quando è normalmente abituato a concentrarsi su uno. […] Non so se ci sia qualcosa da dire sull’azione, per il fatto che Dorante ama Clarice per la durata dell’intera pièce per poi, alla fine, sposare Lucrèce; e questo impedisce che il testo mantenga la condizione iniziale. L’autore spagnolo compie questa scelta per punire il protagonista per le sue menzogne, e lo costringe quindi a sposare Lucrèce che egli non ama affatto. […] Personalmente un simile finale mi sembrava un po’ duro, e ho pensato che un matrimonio meno forzato avrebbe raccolto meglio i favori del pubblico. Questo mi ha costretto a far sì che Dorante, nell’atto quinto, propendesse per Lucrèce, così, subito dopo aver compreso di essersi confuso con i nomi, fa di buon grado di necessità virtù e la commedia si conclude con la massima serenità di tutte le parti coinvolte”[6].

Il bugiardo di Carlo GoldoniCarlo Goldoni, per il suo Bugiardo, prende spunto proprio da una traduzione italiana del testo di Corneille e a sua volta la rimaneggia. Ne consegue che lo spettacolo a cui assiste il pubblico italiano è una commedia di Alarcón passata prima attraverso lo stile francese di Corneille e poi calibrata in base allo spirito goldoniano:

Nel tempo in cui cercavo dappertutto soggetti di commedia, mi ricordai di aver veduto recitare a Firenze in un teatro di dilettanti il Bugiardo del Corneille tradotto in italiano; e siccome una composizione veduta recitare si tiene a memoria sempre più facilmente, mi ricordavo benissimo di quei luoghi che più mi avevano colpito, rammentandomi inoltre di aver detto nell’atto di sentirla: questa è una buona commedia, ma il carattere del bugiardo potrebbe trattarsi in maniera più comica. Siccome non avevo tempo di star perplesso sulla scelta degli argomenti, mi determinai a questo, somministrandomi l’immaginazione, in me allora pronta e vivissima, tal fecondità comica, che mi era perfino venuta la tentazione di creare di pianta un nuovo Bugiardo.
Ma rinunziai a questo disegno. Presane la prima idea da Corneille, rispettai il maestro e mi feci un onore d’intraprendere il lavoro sulle sue tracce, aggiungendo soltanto quello che mi pareva necessario per il gusto della mia nazione e per la durata della rappresentazione[7].

Goldoni introduce nel testo elementi nuovi, come i sonetti e le lettere, atti a rendere la trama più complessa e ad aumentare gli ostacoli che il protagonista si trova a dover superare, e pone il bugiardo a confronto con un timido, in modo da metterlo in maggiore risalto[8]. Questa scelta fa sì che il personaggio si trovi a dominare maggiormente l’intreccio e introduce anche quella psicologia femminile che troverà il suo culmine nella Locandiera (1753)[9]. Tuttavia, risulta evidente che del testo originale di Alarcón e dei precetti morali che desiderava trasmettere è rimasto poco o nulla, anche perché nel passaggio tra Spagna, Francia e Italia la commedia ha finito per assumere i tratti caratteristici della letteratura e della mentalità del luogo.

Il Tartufo di Molière è probabilmente la pièce più nota al pubblico quando si parla di bugiardi o di ipocriti impostori. Rispetto ai testi visti in precedenza, non è stata concepita a partire da commedie preesistenti e, anzi, è stata oggetto di parecchie accuse che hanno creato non pochi problemi al suo autore. La storia di Orgone che si lascia ingannare dal falso devoto al punto da mettere a repentaglio non solo i suoi beni ma la sua intera famiglia risulta comica non per l’ipocrisia di Tartufo ma per l’atteggiamento dello stesso Orgone:

Stando alla formula di Molière, ogni personaggio comico è un ipnotizzato. Il suo isolamento, la sua impotenza a comunicare con il mondo della ragione, la sordità e cecità mentale, la sua beatitudine derivano da una passione fissa che lo affascina. In Molière questa passione talvolta si nutre di se stessa, […], talvolta subisce direttamente l’influenza di un gruppo sociale, […]; ma più sovente appare sulla scena un ipnotizzatore, volontario o involontario, che manovra il burattino. […] Orgone è meno ridicolo e meno cristiano perché Tartufo recita una parte? Chi lo segue ritrova una pace profonda, e il mondo se lo scorda, come fosse un letamaio. Più gli parlo, più sento che io divento un altro: sì, Tartufo mi insegna a non amare niente, distacca la mia anima da qualsiasi emozione; morti potrei vedere, padre, madre, fratello, la moglie e tutti i figli senza affatto soffrire. Isolate per un attimo questi versi di Orgone, dimenticate le idee preconcette e soprattutto dimenticate Tartufo. Poi inseriteli nuovamente nella trama comica e chiedetevi di che cosa avete riso. Semplicemente dello stato d’animo di un uomo completamente cristianizzato, totalmente staccato dal mondo, dello stesso stato d’animo che in Pascal vi ha fatto palpitare[10].

Tartufo di Molière

Tartufo diventa quindi una figura estremamente pericolosa, capace di mietere vittime ma al tempo stesso emblema della mentalità di un’epoca. Il suo comportamento si distacca completamente da quello dello Pseudolo di Plauto, che agisce d’astuzia non tanto per il proprio interesse ma per quello del padrone, o dal bugiardo di Goldoni che approfitta della timidezza del suo “avversario” in amore per ottenere i favori della dama desiderata. Le sue menzogne portano a un mutamento dello stato psicologico della vittima dovuto a una pregressa debolezza mentale della stessa:

Se l’ipocrisia di Tartuffe sconfina dalle categorie morali, come e dove bisognava catalogarla? Era questa l’emozione che mi faceva ballare sulla sedia. La modernità ha spesso visto in Tartuffe un’immagine tenebrosa del male. E sia, ma con una limitazione dostoievschiana. Tartuffe è un personaggio patologico, appartiene a un sistema diagnostico. È il primo dei grandi malati di Molière, così come è il primo dei suoi medici. È una peste, un cancro sociale, ma è anche la coscienza impudente e teatrale dell’infezione che gli dà vita. Avevo davanti a me non un’ipocrita ma uno psicanalista ante-litteram, uno di quei medici che insegnano il distacco dalle passioni e dal mondo per insinuarsi negli altri e dominarne il cuore, contagiandolo coi metodi e le astuzie della politica. Quei medici che illudono di guarire insegnando per interesse e per calcolo “à n’avoir affection pour rien”, a guardare il mondo “comme du fumier”, come un letamaio. Un medico, ma anche un intellettuale dal sorriso accomodante e dai denti di lupo, uno di quei piccoli teologi della letteratura e della politica che fanno del terrorismo e praticano la cultura come un’arma, come uno strumento esoterico di minaccia[11].

Conclusioni

Come si evince dall’analisi qui presentata, Duchotel, il protagonista del Signore va a caccia di Georges Feydeau, si distingue dagli altri celebri bugiardi teatrali per il suo perdere progressivamente di vista la motivazione alla base di tante bugie e il suo convertire la menzogna in una vera e propria ossessione di cui non è più in grado di fare a meno. Pur collocandosi in un contesto che nulla ha a che vedere con gli intenti moralizzatori di Alarcón o con l’atto d’accusa di Molière, Duchotel è comunque un personaggio del suo tempo attraverso il quale Feydeau ritrae una borghesia priva di principi che finisce per aggrapparsi con le unghie e con i denti alla vacuità che la circonda.


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