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Dario Fo e Georges Feydeau: La farsa è una cosa da ridere? (II)

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Il presente saggio è tratto da Italica, Vol. 72, No. 3, Theatre (Autumn, 1995), pp. 307-322. L’autore è Joseph Farrell. La traduzione è a cura di Annamaria Martinolli ed è stata realizzata dietro autorizzazione dell’American Association of Teachers of Italian e dell’autore.

Gli imbianchini non hanno ricordiAll’epoca di Ladri, manichini e donne nude, Fo stabilì un contatto con Feydeau non solo per la tecnica utilizzata, ma anche per la tematica e il soggetto affrontati. Tutti e quattro i lavori sono esercizi di esuberante, pococurante assurdità che costituisce l’essenza della farsa tradizionale, ma vi sono anche elementi di satira sulle ipocrisie istituzionalizzate. La satira non è sempre presente, e nemmeno l’indispensabile raison d’être delle pièces. Gli imbianchini non hanno ricordi è ambientata in un bordello e offre il titillamento delle poco vestite filles de joie che si radunano attorno al marito della proprietaria del bordello bloccato in uno stato di paralisi dall’iniezione di una sostanza chimica che immobilizza ma non uccide. Due imbianchini entrano in scena per completare un lavoro di imbiancatura di routine e, dopo una serie di incidenti, l’iniezione, che ha lo scopo di mantenere in coma il marito della proprietaria, viene erroneamente somministrata a uno di loro. Non avendo ricevuto la sua dose quotidiana, l’uomo si risveglia e spiega che la moglie lo ha immobilizzato perché si era rivelato troppo attraente per le altre donne del bordello. Tutto finisce bene poiché la proprietaria riceve a sua volta l’iniezione, restando immobilizzata, e lascia quindi il marito e i due imbianchini a fare compagnia alle ragazze e a vivere felici e contenti. L’intreccio possiede lo stesso slancio del teatro di Feydeau, e questo accadrà anche con tutti gli altri testi composti da Dario Fo nell’arco della sua intera carriera, ma il fattore più importante è che la pièce si basa sul qui pro quo, o ritorsione equivalente, che svolge un ruolo fondamentale nel teatro vaudeville[19]. Se la tragedia raffigura un mondo da cui ogni coerenza è svanita e dove la giustizia è assente, il vaudeville rappresenta un universo accogliente dove i torti vengono riparati e la consolazione finale è assicurata.

La necessità di un finale benevolo distingue nettamente il teatro di Feydeau da quello di Ionesco, ma la posizione di Fo è più ambigua. Non tutti i ladri vengono per nuocere è la pièce che, in questo periodo della carriera di Dario Fo, più si presta al paragone con Feydeau. Fo la definì pochade, cioè uno sketch cabarettistico dallo stile mordace, ma mentre l’intreccio richiama la farsa del XIX secolo, l’elemento distintivo è che Fo sollecita il giudizio sui personaggi e il loro comportamento. Gli inganni tipici della coppia borghese vengono smascherati per essere sottoposti a un ironico esame. Un ladro irrompe in un aristocratico appartamento, ma appena sta per mettersi all’opera, squilla il telefono. La chiamante è sua moglie che gli chiede di portarle un regalo, ma appena lui è riuscito a calmarla, una coppia, il proprietario dell’abitazione e la sua amante, fa il suo ingresso. Il ladro si nasconde all’interno di una pendola, dove sente per caso che l’uomo cerca di convincere la donna ad andare a letto con lui. I suoi sforzi sono vanificati da due eventi successivi: un’altra telefonata della moglie del ladro, che insinua nei due aspiranti adulteri il dubbio che la loro relazione sia stata scoperta, e l’arrivo di un’altra coppia, formata dalla proprietaria e dal suo amante. La moglie del ladro, che ha udito al telefono la voce di un’altra donna, sopraggiunge a sua volta nell’appartamento per punire il marito per la sua presunta infedeltà e finisce per scoprire che gli è stato chiesto di spacciarsi per il marito dell’amante del proprietario in modo da salvare le apparenze. L’intreccio continua ad ingarbugliarsi per poi concludersi bruscamente, in un brusio di confessioni a propria discolpa, quando entra in scena un secondo ladro. Il finale non si rivela tanto ambiguo quanto forzato e deludente. Fo ha sempre avuto difficoltà nell’elaborare finali convincenti per le sue pièces.

Non tutti i ladri vengono per nuocereL’intreccio di questo testo è complesso quanto una tragedia dell’epoca di Giacomo I, con una serie di diverse situazioni concepite e smontate con rapidità e ingenuità tali da estendere al massimo i limiti della struttura dell’atto unico. I mariti i cui tentativi di adulterio vengono resi vani, il criminale di buon cuore, la megera dal carattere risoluto, la borghese possessiva e il patriarca farisaico del ceto medio ossessionato dalla sua reputazione sono tutte figure già delineate con precisione nei teatri di Courteline, Labiche o Sacha Guitry. L’azione si svolge con la meccanica precisione di un lavoro di orologeria: l’attenta e lunga introduzione dei personaggi alle situazioni più compromettenti; le veloci, e ben calcolate, entrate e uscite di scena; le rivelazioni ben dosate; i rapidi cambi di direzione; gli appuntamenti che vanno a monte; i desideri sessuali insoddisfatti e irrealizzati; l’ininterrotto movimento sia di notizie che di luogo. Tutti questi elementi si riscontrano anche nell’opera precedente e costituiscono i meccanismi fondamentali della farsa da boulevard. I parallelismi possono essere ulteriormente estesi. Georges Feydeau raccontò, durante un’intervista, di come cercasse invariabilmente di individuare i due personaggi, tra i suoi tanti, che non dovevano mai incontrarsi e organizzasse immediatamente il “catastrofico incontro”[20]. Nella pièce succitata di Dario Fo, il movimento è generato proprio da incontri di questo tipo: la coppia ipocrita, ad esempio, si incontra in presenza dei rispettivi amanti, e la moglie del ladro organizza involontariamente un incontro tra suo marito e le persone la cui casa sta svaligiando.

Come se non bastasse, l’opera di Fo possiede tutte e tre le caratteristiche che Henri Bergson ritiene fondamentali per il “comico di situazione” e che individua nel suo saggio già citato. Il primo punto di riferimento di Bergson è Molière, ma egli conosce anche, malgrado non nutra molto rispetto nei suoi confronti, la “commedia leggera” e quindi cita con una certa frequenza Labiche. Per l’autore, le tre caratteristiche di cui sopra sono “la ripetizione, l’inversione e la reciproca interferenza delle serie”[21]. L’intreccio di Non tutti i ladri vengono per nuocere è formato da una serie di situazioni interdipendenti e ripetitive: ricorre sempre la medesima disposizione degli eventi, ognuno dei quali concepito per ostacolare la realizzazione di ogni nuovo progetto. Il ladro riceve la telefonata della moglie e viene interrotto dall’arrivo della coppia formata dall’uomo e dalla sua amante ritrosa; il ladro si nasconde nella pendola, ma la situazione adulterina viene turbata dal suo sbucare dal nascondiglio, seguito dall’arrivo della moglie dell’uomo con il suo rispettivo amante; il gruppo assume un atteggiamento di finta tranquillità, con il ladro che recita la parte del marito dell’amante dell’uomo, ma il tutto viene turbato dall’arrivo di sua moglie che vuole indagare sulla presunta infedeltà del marito; l’ingresso dell’amante della moglie del proprietario fornisce l’ultimo elemento dell’intreccio. Fo lascia la situazione in sospeso, chiudendo la pièce con l’ingresso di un secondo ladro che diventa il depositario degli scomodi segreti di tutti quanti.

L'opera del mendicanteL’intreccio presenta quella seconda caratteristica, comune a ogni commedia, denominata da Bergson: “inversione”. “Ridiamo dell’imputato che fa la ramanzina al giudice”, spiega l’autore[22]. Questo capovolgimento delle gerarchie tradizionali – identico a quello del carnevale di Michail Bachtin – è l’elemento essenziale di ogni commedia, dalla Gomena di Plauto, passando per L’opera del mendicante di John Gay e fino ad arrivare al Pigmalione di George Bernard Shaw. Dario Fo ricorre a questo accorgimento trasformando la figura del ladro in un “eroe positivo”. Il furto non è mai condonato o condannato più di quanto lo sia l’assassinio nel teatro di Joe Orton, ma il ladro diventa la caricatura dell’uomo schietto e onesto che svolge una giusta giornata di lavoro in attesa della giusta ricompensa. Le norme sociali vengono capovolte. Il ladro e la moglie rappresentano un ideale in quanto sono fedeli l’uno all’altra, e questa loro caratteristica è in netto contrasto con l’atteggiamento adulterino, ipocrita e occasionale, della rispettabile coppia del ceto medio. I proprietari dell’abitazione in cui è ambientato il testo professano onestà, ma si preoccupano più del possesso e sono spesso disonesti l’uno con l’altro. L’ipocrisia è una tematica costante sia nella commedia di costume da boulevard sia nel teatro di Ionesco, ma Dario Fo attribuisce all’argomento contorni classisti. La politica sessuale della borghesia è falsa e la sua etica riguarda la salvaguardia della proprietà. La coppia che il tribunale giudicherebbe disonesta dimostra un senso morale più radicato della coppia borghese.

La terza caratteristica citata da Bergson, l’“interferenza”, viene utilizzata con significato idiosincratico e metaforico preso in prestito dalla terminologia dell’ottica per indicare il travisamento derivante dall’accavallamento e sovrapposizione di due diverse serie di circostanze. I fraintendimenti comici, le interpretazioni errate, le ambiguità o le confusioni di identità sono la conseguenza del fatto che un medesimo evento viene visto in due contesti inconciliabilmente diversi o da punti di vista opposti. Nella pièce citata, due diverse situazioni e prospettive si giustappongono per tutta la durata della stessa: un codice basato sui valori patrimoniali e la tutela della reputazione pubblica si scontra con un codice che ha come principio la fedeltà coniugale. La moglie del ladro sente una voce di donna al telefono, e presume la sua infedeltà; l’uomo che risponde alla chiamata presume che la moglie del ladro sia una spia assunta dal compagno della sua amante. La moglie del ladro entra nell’appartamento e trova il proprietario intento a puntare una pistola contro suo marito. Presume che stia per essere sommariamente giustiziato per furto quando in realtà sta per essere colpito, ma non ucciso, per evitare che riveli la relazione adulterina.

In questo suo rispettare la farsa tradizionale, Dario Fo assume un atteggiamento molto diverso da quello di Eugène Ionesco. Il paradosso di Fo è sempre stato quello di dimostrarsi iconoclastico e rivoluzionario in ambito politico e perennemente conservatore nel settore teatrale. Questo suo rispetto per la tradizione assume la forma di una riverenza nei confronti dell’intreccio e della situazione. Mentre Ionesco e Beckett eliminano, nel vero senso della parola, l’intreccio, per Fo resta l’elemento dominante del teatro. La precoce predilezione di Ionesco per gli atti unici deve molto alla sua riluttanza nello sviluppare una situazione che va oltre la sua semplice esposizione. I suoi personaggi non sono in grado di evolversi poiché non gli accade nulla a cui possono reagire. In Ionesco solo la parola è attiva e il linguaggio domina l’azione; il suo teatro può essere interpretato più come dramma del linguaggio che linguaggio nel dramma. Il linguaggio enfatizza il solipsismo e la solitudine dei suoi personaggi e, nei momenti di crisi, si rivela inadeguato. Anche i vagabondi di Beckett, mentre aspettano Godot, trovano motivo di consolazione nel linguaggio, ma malgrado Ionesco arrivi alla logica conclusione che nessun autore di testi teatrali può rifiutarsi completamente di credere nel potere comunicativo delle parole, i suoi personaggi dimostrano di credere il contrario. Nella migliore delle ipotesi, esprimono la loro necessità di comunicare.

The RivalsDario Fo gioca con le parole, ma nello stile di Mrs. Malaprop (personaggio della pièce The Rivals (1775), di Richard Brinsley Sheridan, noto per il fatto che storpia sempre le parole e all’origine del termine inglese malapropism, N.d.T.) o di Pochet di Occupati di Amélie di Feydeau. Questi personaggi si esprimono in modo incerto e balbettante, con un linguaggio consapevolmente e intenzionalmente distorto per creare l’effetto comico, ma non hanno alcun dubbio riguardo all’efficacia del loro parlare. La capacità del linguaggio stesso di essere portatore di significato razionale non viene mai messa in discussione. L’umorismo solo verbale non è il punto di forza di Dario Fo; il suo talento principale consiste nell’abilità con cui riesce a manipolare l’intreccio. Prendendo in considerazione il puro piano teatrale, la principale differenza tra Fo e Ionesco consiste nel fatto che nel teatro del primo domina la situazione, in quello del secondo il linguaggio. Come affermò a suo tempo lo stesso Ionesco: “il dialogo degli Smith, dei Martin, degli Smith con i Martin, è di per sé teatro poiché il teatro è dialogo. Ho scritto dunque La cantatrice calva perché è proprio un’opera didattica per il teatro”[23]. Non mantenne le stesse convinzioni per tutto l’arco della sua carriera teatrale, ma gli intrecci ben strutturati non divennero mai una caratteristica della sua drammaturgia. Fo, comunque, restò immune al significato didattico della Cantatrice calva. Per lui, il teatro, non poteva in alcun modo essere costituito dal solo dialogo, e il linguaggio non occupò mai un ruolo di primo piano rispetto ai personaggi o alla situazione.

Tuttavia, se Ionesco e Fo si distinguono per il tipo di farsa di cui si avvalgono, sembrano essere accomunati dalle intenzioni satiriche dei loro testi. Sbalordire il borghese è l’obiettivo comune, o almeno questo dicono le apparenze, anche se, ancora una volta, le differenze si rivelano cruciali quanto le somiglianze. Ionesco scartò fin da subito l’ipotesi che i personaggi che ridicolizzava fossero proprio i capitalisti medio borghesi. Quando scrisse La cantatrice calva, insistette nell’affermare che “non è assolutamente la satira della mentalità della piccola borghesia di una specifica società. È soprattutto una specie di piccola borghesia universale, poiché il piccolo borghese è una persona dalle idee stereotipate e dalle frasi fatte; è un onnipresente conformista [24]”. I suoi Smith sono fratelli carnali dei vagabondi di Beckett; esistono su un piano che non può essere determinato o influenzato dai cambiamenti storici. I personaggi di Ionesco sono metafisiche nullità o costanti metafore di una specifica classe intellettuale-culturale. La borghesia di Dario Fo, invece, appartiene alla storia e trova la sua ragione d’essere proprio in un contesto politico e sociale ben preciso. Nelle sue opere degli anni Cinquanta, la satira di Fo non mira a colpire figure politiche, come succede nelle pièces dell’ultimo periodo, ma va a bersagliare una specifica classe sociale e delle situazioni ancora più specifiche come, ad esempio, il fatto che in Italia, in quegli anni, non esistesse una legge sul divorzio. La gerarchia di valori implicata dalla scelta di Ionesco esclude ogni elemento che possa dipendere da un atto politico o sociale, e di conseguenza un tipo di teatro i cui parametri sono politici o sociali. Ionesco non solidarizzava con coloro, da Bertolt Brecht a Jean-Paul Sartre, che si limitavano al “piano sociale, che a me sembra il più esterno e quindi anche il più superficiale”[25]. La sua visione del mondo è un affronto alla visione secolare; la sua immaginazione crea una terra dove la ferocia è la regola, dove la forza della ragione ha perso il suo dominio; i conflitti rappresentati non sono, per loro natura, destinati alla risoluzione.

Eugène Ionesco

Ionesco e Fo si muovono entrambi in uno scenario che, dal punto di vista culturale e spirituale, è molto lontano dai salotti della Belle Époque di Feydeau; ma anch’essi sono molto lontani l’uno dall’altro. In ogni fase della sua carriera, Fo agisce fermamente e indiscutibilmente nell’ambito di una visione materialistica e razionalistica. Il mondo di Dario Fo è concreto; i suoi personaggi necessitano di un contesto specifico e il suo teatro è soprattutto sociale. Il soggetto di Morte accidentale di un anarchico potrebbe essere riformulato sottoforma di tragedia, ma la convinzione a esso soggiacente è che la giustizia può essere applicata, che gli errori si possono correggere e che una società più genuina è ancora possibile. Le sue pièces sono, in modo implicito nei primi lavori ed esplicito negli ultimi, un appello all’azione con lo scopo di guarire i mali e porre fine alle ingiustizie. Non vi è la benché minima affinità con quel concetto che George Steiner definiva il fulcro della visione tragica[26], e cioè che esiste uno squilibrio nella concezione dell’universo, un’innata indifferenza cosmica verso l’attività umana e una malattia che renderà vano ogni sforzo.

Nelle sue farse prepolitiche del primo periodo, Dario Fo ridicolizza i suoi personaggi borghesi per i loro comportamenti, per le loro convinzioni e per le discrepanze tra gli uni e le altre. Il suo punto di vista si limita al presente; descrive un mondo in grado di fare dei progressi e in cui l’ottimismo e la speranza hanno ancora un significato. Il riformatore politico è per sua stessa definizione un ottimista, anche se si tratta di un ottimismo disperato – “pessimismo dell’intelligenza, ottimismo della volontà”, come sosteneva Gramsci – . Le farse di Fo non offrono la danse macabre del teatro dell’assurdo, e non sono dominate dal memento mori. L’autore sradica la “normalità” dell’ordine borghese ma sempre in nome di un ordine alternativo. In questo senso, Fo è l’immagine distorta allo specchio di Feydeau; mentre Feydeau asserisce che tutto va bene, Fo risponde che tutto potrebbe essere fatto meglio. Rovescia le norme esistenti, fa assumere pose degradanti a figure eminenti, schernisce e canzona la loro pavoneggiante maestosità, ma non lascia mai intendere che essi rappresentano una dimensione cosmica priva di ogni coerenza. Vi è un punto in cui il surreale, l’assurdo e la buffonata da puro diavoletto in stile Puck – anche quando quest’ultimo è al servizio della satira – si sovrappongono, un punto in cui Gilbert e Sullivan (il primo è un noto librettista, il secondo un noto compositore, N.d.T.) devono per forza apparire kafkiani, ma per origine e obiettivi sono diversi l’uno dall’altro quanto il Paese delle Meraviglie e il deserto. L’assurdo prefigura un mondo di per se stesso insensato, arbitrario, gratuito, e che non può essere null’altro che caos; almeno in principio, il caos della farsa, per dirla secondo i termini utilizzati da Mircea Eliade[27], può formare un cosmo. Con buona pace di Salvatore Quasimodo, non vi è nulla di metafisico in Dario Fo. Il suo ambito di riferimento è la società con la cultura, le credenze e il codice di condotta che si è autocostruita. Fo non divaga mai su quella terra desolata confinante dove gli individui allontanati dalla società si scambiano battute aspettando un qualche Dio o Godot.
Vi sono occasionali echi di conversazione che si possono udire in quell’assurda terra desolata, ma sembrano pastiche o parodie. Il fatto che Fo in L’uomo nudo e l’uomo in frac riprenda due situazioni descritte da Beckett rende la pièce una parodia consapevole del teatro di quest’ultimo. L’uomo nudo dentro al bidone della spazzatura richiama nei toni la difficile situazione della coppia protagonista di Finale di partita, mentre i due spazzini, con la loro tendenza a filosofeggiare, ricordano i vagabondi di Aspettando Godot. I due discutono su diversi argomenti astratti, tra i quali la possibilità, nella vita, di conseguire verità e felicità:

Primo spazzino: Senti, ad un certo punto meglio dire la verità e non pensarci più, almeno io penso così…
Secondo spazzino: Ah, sì, l’hai detto, la verità… e che cos’è la verità? Tu dirai: il contrario del falso… giusto, allora dimmi un po’: qual è il falso, qual è il vero? È vero ciò che è vero, o è vero ciò che è falso? Quando se il vero e il falso si identificano…
Primo spazzino: E ci risiamo coi discorsi da matti!
Secondo spazzino: Nient’affatto, da saggio, se mai. Tanto per cominciare: qual è la cosa più importante nella vita?
Primo spazzino: Ma, credo che se uno sta bene di salute ed è contento…
Secondo spazzino: …raggiunge la vera felicità?[28]

Aspettando Godot

La loro conversazione copre argomenti quali la natura della pazzia, la validità dello yoga come mezzo per sentirsi appagati, l’idea platonica di verità assoluta e la possibilità che il Papa sappia dove risiede Dio, ma i due vengono interrotti, non da Lucky o Godot, bensì da una donna sconvolta e dalla comparsa di un uomo nudo dall’interno di uno dei bidoni che stanno spingendo. Con l’episodio dell’uomo nudo nel bidone Dario Fo non vuole rappresentare una metafora della futilità della vita, ma piuttosto una bergsoniana “inversione” della normalità e delle convenzioni. Il tono è scherzoso, l’atmosfera giocosa e l’accento è posto sulla ridicolosità della nudità dell’uomo e la mancanza di dignità. Entrambi questi fattori vengono esacerbati quando si scopre che l’uomo è un ambasciatore che è stato disturbato mentre si trovava con l’amante e quindi costretto a rifugiarsi, svestito, nel più vicino nascondiglio. I due spazzini filosofi sono ritratti sotto una luce stravagante. La comparsa dell’uomo nascosto mette in risalto il vero gioco, la lunga serie di fraintendimenti e scambi di identità che costituiscono l’intreccio. Uno degli spazzini scorge un fioraio che vende rose nei night club e che indossa ancora l’abito da sera, e si offre di comprarglielo. Le cose non vanno affatto lisce e così è lo spazzino che finisce per indossare l’abito, venendo di conseguenza scambiato per un uomo di rango. Il problema posto in questo contesto è di tipo sociale, non metafisico. Chi è il vero gentiluomo – il Don Giovanni decaduto o l’operatore ecologico nel suo vestito elegante? – . Quali sono i fattori che determinano il valore di un individuo all’interno della società se l’arguzia e l’intelligenza di un lavoratore non inducono il rispetto nei suoi confronti e se un ambasciatore in uno squallido ambiente si aspetta che chiunque unisca le proprie forze per ripristinare la sua dignità perduta? La pièce non è un contributo al teatro dell’assurdo, ma un’abile satira sociale. Dietro la (momentanea) assurdità della situazione si cela un mondo il cui ordine può essere migliorato, oltre che essere reso più razionale e giusto.

I cadaveri si spediscono e le donne si spogliano mette in scena una serie di morti in sequenza ma si tratta, comunque, di una commedia nera sullo smaltimento dei cadaveri di gente assassinata e non di una farsa tragica sul significato universale della morte. L’ambientazione, nel laboratorio di una costumista teatrale, presenta qualche punto in comune con Sarto per signora di Feydeau, mentre l’intreccio possiede delle connotazioni da grand guignol. Descritta da Dario Fo come una farsa gialla, l’opera mostra tre donne che uccidono i rispettivi mariti per poi spedire, in pacchi accuratamente legati, i relativi cadaveri nella convinzione che le poste si dimostreranno così inefficienti da smarrire i colli e far sparire i corpi per sempre. I pacchi, tuttavia, vengono restituiti alle mittenti e il laboratorio della costumista viene visitato da diversi personaggi – un ispettore del Ministero, un detective, un becchino – . Ogni forma di coerenza è bandita. Le identità dei personaggi sono confuse, alcuni si comportano più come marionette che esseri umani, altri indossano costumi di epoche passate, i sessi si intersecano – uno dei personaggi viene definito solamente come l’uomo-donna. I molteplici decessi vengono citati con aria di indifferenza, ma esiste una spiegazione, seppur assurda, all’intera situazione. La costumista non è un’immagine della morte ma una donna d’affari che ha inventato una caramella che, a contatto con i succhi gastrici, esplode e che gestisce un’agenzia per aiutare altre donne a eliminare i mariti indesiderati. Sarebbe eccessivo affermare che l’intreccio è concepito come una protesta contro il fatto che in Italia, all’epoca, non esisteva una legge sul divorzio, ma alcune battute dei dialoghi si riferiscono proprio a questa situazione.

Dario Fo e Franca Rame

In queste opere del primo periodo le cose vanno solo momentaneamente per il verso sbagliato, le persone si comportano male, le forze che agiscono non sono quelle giuste e viene applicata una scala di valori errata, ma le trame non hanno nulla a che vedere con le pièces didattico-politiche che Dario Fo scriverà dopo il 1968 e nemmeno con il teatro dell’assurdo. Fo si accontentava di ridicolizzare la magniloquenza, l’ipocrisia e la meschina oppressione. La tradizione del teatro popolare era sufficientemente vivace per i suoi scopi e anche per gli spettatori a cui si rivolgeva. E l’antiteatro non è mai stato per lui motivo di attrazione. Apprezzava la farsa in sé, ma si trattava di un tipo di farsa da lui stesso creato. Georges Feydeau, sempre in superficie, rideva di soddisfazione delle imperfezioni di un mondo che era il migliore dei mondi possibili; Eugène Ionesco scherniva un mondo assurdo che non sarebbe mai potuto migliorare; Dario Fo, invece, ridendo fragorosamente delle assurdità generate dall’uomo, invitava ad agire al fine di eliminarle.

Dario Fo e Georges Feydeau: La farsa è una cosa da ridere? (I)


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